Il presente contributo ha finalità di mera informazione e divulgazione scientifica. Le opinioni espresse sono strettamente personali e non costituiscono in alcun modo consulenza di natura giuridica, fiscale o economica.
di Alessio Scaglia
Il lavoro del fisioterapista, come qualunque altra attività lavorativa, può essere esercitata nelle forme della subordinazione o della libera professione[1].
È pacifico che il lavoro subordinato non possa dar luogo ad alcuna problematica circa l’applicabilità dell’imposta sul valore aggiunto per le prestazioni rese dal lavoratore. Più controverso appare, invece, il regime i.v.a. del fisioterapista libero professionista tanto nella sua veste di operatore extra moenia quanto nella sua veste di operatore intra moenia.
Prendendo spunto da una pronuncia di una Commissione Tributaria Regionale[2], l’intenzione di chi scrive è di fornire un contributo interpretativo per fare chiarezza in un settore piuttosto controverso[3].
Prima di affrontare la questione principe di questo articolo è opportuno chiarire quale sia il regime tributario generale del fisioterapista libero professionista[4].
Il fisioterapista che decida di intraprendere la professione nella forma libero professionale è tenuto a costituirsi come lavoratore autonomo e ad aprire la partita i.v.a.[5].
La prima questione che tale soggetto è tenuto ad affrontare concerne il regime fiscale cui aderire: semplificando oltremodo i termini della questione, chi intende intraprendere una attività di lavoro autonomo deve decidere se contribuire alla spesa pubblica secondo le ordinarie regole dettate in materia di imposte sul reddito, imposta sul valore aggiunto e, eventualmente, imposta sulle attività produttive, oppure se aderire al c.d. “regime dei contribuenti minimi”[6].
Questo regime fiscale agevolato non può essere adottato da chiunque, ma devono sussistere determinati requisiti previsti dalla legge. In particolare, possono accedere al sistema sostitutivo di vantaggio le persone fisiche che intraprendono un’attività d’impresa o di lavoro autonomo, o che l’hanno già avviata successivamente al 31 dicembre 2007. Inoltre, il professionista deve rispettare le seguenti condizioni:
a) Nell’arco dell’anno precedente: a1) non deve aver conseguito ricavi o compensi superiori ad € 30.000,00; tale limite non deve essere superato nemmeno se si prosegue un’attività svolta in precedenza da altro professionista (esempio mediante il subentro nella gestione dell’impresa); a2) non avere lavoratori dipendenti o collaboratori (anche a progetto); a3) non aver effettuato cessioni all’esportazione; a4) non aver erogato utili da partecipazione agli associati con apporto di solo lavoro.
b) Nel triennio precedente: b1) non aver effettuato acquisti di beni strumentali per un ammontare superiore a 15mila euro anche mediante contratti di appalto e di locazione, pure finanziaria; b2) non aver esercitato attività artistica, professionale o d’impresa, anche in forma associata o familiare; b3) non proseguire un’attività precedentemente svolta sotto forma di lavoro dipendente o autonomo, escluso il caso in cui l’attività precedentemente svolta consista nel periodo di pratica obbligatoria ai fini dell’esercizio di arti o professioni (praticantato professionale)[7].
Vi sono, poi, una serie di posizioni per le quali è specificamente esclusa la possibilità di aderire al regime agevolato.
Non è questa la sede ove approfondire tutte le vicende che interessano il regime dei contribuenti minimi e, pertanto, ci si limita a segnalare che l’imposta prevista per tali contribuenti è sostitutiva dell’i.r.pe.f., dell’i.v.a.[8], dell’i.r.a.p. (se dovuta); non comporta la tenuta delle scritture contabili al di là di tutte le fatture emesse e/o ricevute ed esclude l’applicabilità degli studi di settore[9].
L’imposta sostitutiva è pari al 5% del reddito netto[10] e, ovviamente, non è possibile fruire di tutte le detrazioni di imposta che, invece, si potrebbero utilizzare ai fini i.r.pe.f.[11].
Il fisioterapista che aderisce al regime dei contribuenti minimi[12], quindi, non conosce le problematiche derivanti dall’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto alle prestazioni rese nell’esercizio della propria attività di natura sanitaria.
L’esercente questa professione che, per i più svariati motivi, non intenda o non possa aderire al regime dei contribuenti minimi, dovrà, invece, confrontarsi con l’applicazione del regime i.v.a. alla propria attività[13].
È oltremodo scontato, infatti, che – salvo esenzioni, esclusioni e operazioni non imponibili – i liberi professionisti debbano applicare l’imposta sul valore aggiunto ai compensi percepiti per le prestazioni professionali rese. Infatti, l’art. 1, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, istitutivo dell’imposta sul valore aggiunto, prevede che questa si applichi «sulle cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell’esercizio di imprese o nell’esercizio di arti e professioni e sulle importazioni da chiunque effettuate».
Inoltre, la normativa precisa anche cosa debba intendersi per esercizio di arti e professioni, statuendo che è tale «l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di qualsiasi attività di lavoro autonomo da parte di persone fisiche ovvero da parte di società semplici o di associazioni senza personalità giuridica costituite tra persone fisiche per l’esercizio in forma associata delle attività stesse»[14].
Ciò detto in via generale, si deve subito precisare, però, che la peculiare attività del fisioterapista, in quanto rientrante nella categoria di prestazione sanitaria, è esente dall’imposta sul valore aggiunto ai sensi dell’art. 10, c. 1, n. 18), del citato d.P.R. 633/72. La norma, infatti, così dispone: «Sono esenti dall’imposta: […]; 18) le prestazioni sanitarie di diagnosi, cura e riabilitazione rese alla persona nell’esercizio delle professioni e arti sanitarie soggette a vigilanza, ai sensi dell’articolo 99 del testo unico delle leggi sanitarie, approvato con regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, e successive modificazioni, ovvero individuate con decreto del Ministro della sanità, di concerto con il Ministro delle finanze».
Vale la pena ricordare che la professione di fisioterapista è qualificata come professione sanitaria riabilitativa dall’art. 3, Decreto del Ministero della Sanità del 29 marzo 2001 e che l’esenzione si applica automaticamente non essendo più subordinata alla presentazione di prescrizione medica[15].
Sintetizzando quanto sinora esposto, si può affermare che sebbene l’attività del fisioterapista come libero professionista ricada all’interno della disciplina sull’imposta del valore aggiunto, egli non è tenuto ad applicare tale tributo in rivalsa ai propri pazienti in quanto si versa in una ipotesi di prestazione sanitaria di riabilitazione.
Trattandosi di operazione esente, però, è bene precisare che il professionista sarà comunque tenuto ad assolvere l’i.v.a. per quanto concerne gli acquisti effettuati nell’esercizio della sua attività[16] e tali importi pagati non potranno essere portati in detrazione[17].
Di fatto, il regime delle esenzioni va a incidere in modo sostanziale sul principio cardine della neutralità dell’imposta sul valore aggiunto per il professionista[18].
Ad ogni modo, questo è lo stato dell’arte sul regime i.v.a. del fisioterapista libero professionista.
Ora è possibile analizzare nel dettaglio alcuni casi particolari che possono verificarsi.
Il fisioterapista convenzionato con il comune per le prestazioni professionali da rendere a livello domiciliare (C.T.R. Lazio 20 marzo 2007, n. 120).
Sovente le amministrazioni comunali ricorrono ad apposite convenzioni siglate con liberi professionisti, ai quali affidano l’incarico per l’espletamento dell’attività di riabilitazione fisico-motoria presso il domicilio dei pazienti, residenti nel territorio comunale, che facciano richiesta di questo tipo di assistenza[19].
Il dubbio che sorge in questo caso, posto che il fisioterapista emette la fattura nei confronti del comune, concerne l’operatività o meno dell’esenzione di cui all’art. 10, c. 1, n. 18), d.P.R. 633/1972.
Certamente, la prestazione resa è ricompresa all’interno della previsione dell’esenzione. Ma, secondo la Commissione Tributaria Regionale del Lazio, l’esenzione in questione non potrebbe operare.
La differenza, a parere di chi scrive estremamente sottile, asside esattamente nell’oggetto della fattura. Infatti, secondo la citata pronuncia, «le fatture che l’appellato contribuente ha emesso nei confronti del comune di Amatrice non si riferivano alle prestazioni sanitarie effettivamente rese, ma si riferivano alla convenzione e al contratto di prestazione d’opera sottoscritti con il comune. Tale contratto di prestazione d’opera prevedeva infatti la corresponsione di un compenso fisso mensile al terapista indipendentemente dal numero e dalla frequenza delle prestazioni effettuate».
Orbene, qualora la fattura emessa dal fisioterapista per l’attività svolta abbia ad oggetto nongià la singola prestazione nei confronti del paziente bensì l’intera convenzione stipulata con l’ente pubblico, allora non può operare l’esenzione di cui all’art. 10 citato.
Ragionando a contrario, si può desumere dalla sentenza impugnata che se il professionista emettesse una fattura per ogni paziente trattato, allora non sarebbe tenuto ad applicare l’imposta sul valore aggiunto. Questo perché il discrimen adottato dal Giudici laziali si risolve nel fatto che la convenzione siglata prevedesse un compenso mensile fisso indipendente dal numero delle prestazioni.
Sommessamente, si ritiene di dover dissentire da questa impostazione. Infatti, ancorché il contratto stipulato tra ente pubblico e professionista avesse quelle caratteristiche, non si deve dimenticare che le prestazioni oggetto di tale contratto erano (e rimangono) di natura sanitaria come chiaramente individuate tanto dalla normativa sull’i.v.a. quanto dalla precipua normativa del settore sanitario che stabilisce quali professioni e quali attività rivestano tale natura. Aderire alla tesi dell’autorevole collegio laziale implicherebbe una palese disparità di trattamento: infatti il medesimo comune che stipulasse due contratti con due diversi professionisti, l’uno avente ad oggetto un compenso forfettario e l’altro che riconoscesse semplicemente – per esempio – il compenso orario per ogni prestazione, si troverebbe a dover subire l’applicazione dell’i.v.a. in rivalsa nel primo caso mentre sarebbe esente nel secondo. E così, il fisioterapista, sarebbe debitore dell’Erario per l’imposta applicata in rivalsa nel primo caso, mentre nulla dovrebbe pagare nel secondo: ciò, pur svolgendo tali professionisti la medesima attività.
Le prestazioni di fisiokinesiterapia rese da strutture organizzate in forma di impresa, mediante l’opera prestata da lavoratori autonomi.
La seconda ipotesi che si può verificare è quella del fisioterapista che operi all’interno di una struttura organizzata in forma di impresa[20] ma non sia legato ad essa da alcun vincolo di lavoro subordinato.
In questi casi ci si trova in presenza dell’emissione di due fatture per la medesima prestazione professionale.
Infatti, il paziente pagherà alla struttura il prezzo del servizio del quale ha usufruito. Il fisioterapista, poi, emetterà la fattura nei confronti della struttura al fine di ricevere il compenso per l’attività professionale svolta.
Ebbene, le domande da porsi concernono l’applicabilità dell’esenzione i.v.a. prima sulla fattura che la struttura emette nei confronti del paziente e poi sulla fattura che il fisioterapista emette nei confronti della società.
Il primo quesito sorge dal fatto che, in passato, si è sostenuta l’inapplicabilità dell’esenzione i.v.a. poiché le strutture organizzate in forma di impresa non erano abilitate all’esercizio delle professioni sanitarie in quanto non qualificabili come persone fisiche.
Con una pronuncia relativamente recente, la Suprema Corte di Cassazione, richiamandosi alla costante giurisprudenza comunitaria[21], è giunta a chiarire che «l’esenzione in discorso non dipende dalla forma giuridica del soggetto passivo che fornisce le prestazioni mediche o paramediche ivi menzionate, con l’effetto che il diritto all’esenzione va riconosciuto ed applicalo anche alle prestazioni di cura effettuate da una società di capitali o da una fondazione di diritto privato avvalendosi di personale abilitato»[22].
Sulla scorta di tale insegnamento, quindi, deve ritenersi che la struttura organizzata presso la quale il paziente fruisce del trattamento fisioterapico e la quale emette la fattura è tenuta a non applicare l’imposta sul valore aggiunto in rivalsa.
Con riferimento alla seconda delle questioni indicate – ovvero se il professionista che emette la fattura nei confronti della struttura debba o meno applicare la rivalsa i.v.a. – si può operare un ragionamento analogo a quello esposto in precedenza con riferimento alla convenzione stipulata tra comune e fisioterapista.
Allineandosi con quanto statuito dalla Commissione Tributaria Regionale del Lazio, con la Sentenza n. 120/2007, pertanto, si dovrebbe concludere per l’applicabilità dell’imposta sul valore aggiunto in rivalsa ogni qualvolta la fattura emessa dal professionista si riferisca – per esempio – all’opera prestata per l’intero periodo lavorativo (supponiamo mensile); laddove, invece, il professionista emetta una fattura per la singola prestazione fisioterapica relativa ad un determinato paziente, allora opererebbe l’esenzione di cui all’art. 10, d.P.R. 633/1972.
Anche in tale ipotesi, però, valgono le considerazioni fatte in precedenza e, segnatamente la palese disparità di trattamento a fronte dell’esecuzione della medesima prestazione.
La questione appare controversa in quanto la normativa di riferimento (sia l’art. 10, c. 1, n. 18), d.P.R. 633/1972 sia, da ultimo, il D.M. 17 maggio 2002 del Ministero della Salute, parlano di «prestazioni di […] riabilitazione rese alla persona». Orbene, è vero che la prestazione del fisioterapista, anche qualora sia effettuata per conto di una struttura, è resa alla persona. Tuttavia, è pur vero che l’oggetto specifico della fattura potrebbe essere diverso: infatti, nel caso di prestazione resa per conto della struttura, l’oggetto della fattura potrebbe non coincidere esattamente con la dizione di prestazione riabilitativa resa alla persona. In questi casi, quindi, sarebbe necessario applicare l’i.v.a. in rivalsa.
In conclusione, può essere affermato pacificamente che il professionista non debba applicare l’i.v.a. in rivalsa nelle fatture emesse nei confronti dei propri pazienti. Il quadro è più problematico per i casi in cui il fisioterapista operi all’interno di una struttura con un rapporto di collaborazione professionale in base al quale egli emette la fattura nei confronti dell’Ente sanitario.
In tali ipotesi, si ritiene che non dovrebbe comunque essere addebitata l’imposta sul valore aggiunto. La giurisprudenza di merito, però, pare aver assunto una posizione più rigorosa e afferma che laddove la fattura abbia ad oggetto un pagamento “forfettario” per le prestazioni rese e non la singola prestazione, allora deve essere applicata l’i.v.a. in rivalsa.
La tesi non pare persuasiva, anche alla luce del dato normativo che prevede l’esenzione per le prestazioni rese alla persona e non considera quale sia il soggetto per conto del quale la prestazione sia effettuata. La soluzione che, sicuramente, pone al riparo da ogni pericolo è quella di applicare l’imposta in rivalsa nei confronti della struttura e, laddove si ritenga che essa non sia dovuta, chiedere il rimborso al competente Ufficio delle Entrate. In alternativa, soprattutto laddove in giurisprudenza o nella prassi si manifestassero delle posizioni contrastanti, si ritiene possibile presentare un’istanza di interpello[23] all’Agenzia delle Entrate profilando la questione controversa e prospettando, ovviamente, anche la soluzione che si intende adottare.
[1] Per onor del vero, vi sarebbe anche la terza via del lavoro c.d. para subordinato che, però, in questa sede, non è possibile considerare.
[2] C.T.R., Lazio, Sez. XXXIV, 20 marzo 2007, n. 120, in banca dati IPSOA. Si precisa che il presente scritto, ancorché nato dalla lettura della pronuncia appena citata, non è tanto un commento diretto a tale sentenza quanto un’analisi del dato normativo sul regime i.v.a. del fisioterapista.
[3] Si precisa sin d’ora che il presente contributo non ha ad oggetto, invece, la questione che concerne il regime i.v.a.. dei c.d. masso-fisioterapisti e delle relative questioni discriminatorie sollevate dalle Associazioni di categoria e da singoli professionisti. A tal proposito, ci si limita a rimandare alla Risoluzione dell’Agenzia delle Entrante 17 ottobre 2012, n. 96, sul sito www.agenziaentrate.it.
[4] Ovviamente, in questa sede si prescinderà totalmente dalle questioni inerenti al diritto del lavoro (per esempio, la definizione di lavoratore autonomo), al diritto civile (per esempio, le tipologie di contratti stipulati dal fisioterapista con i propri clienti) e al diritto penale (per esempio, esercizio abusivo della professione).
[5] L’apertura della partita i.v.a. è una operazione assolutamente semplice che non richiede alcun costo. È sufficiente recarsi presso l’Agenzia delle Entrate e consegnare la dichiarazione di inizio attività (modello AA9/11) debitamente compilata. Si rammenta che tale comunicazione (come ogni variazione inerente all’attività: cambio residenza, cambio sede lavorativa, ecc.) deve essere effettuata entro 30 giorni dalla data in cui si è verificato l’evento da comunicare (inizio attività, cambio di residenza, ecc.).
[6] Tale forma impositiva sostitutiva è stato introdotta dall’art. 1 c. 100, l. 24 dicembre 2007, n. 244. Sul regime dei contribuenti minimi, in generale, si veda N. Toniolatti, P. Bidoli, Contribuenti minimi e nuove iniziative produttive, Seac, Trento, 2012.
[7] Questo requisito viene meno per quei contribuenti che dimostrino di essere disoccupati o in mobilità per cause indipendenti dalla propria volontà. L’esemplificazione è interamente tratta dal sito dell’Agenzia delle Entrate, www.agenziaentrate.it al quale si rimanda anche per ulteriori approfondimenti.
[8] È opportuno precisare cosa significhi che l’imposta è sostitutiva dell’i.v.a.. Il contribuente minimo, al momento dell’emissione della fattura, dovrà astenersi dal calcolare l’i.v.a. sul proprio compenso professionale, non potendo addebitare la stessa in rivalsa al proprio cliente. In termini strettamente economici, questo fenomeno è particolarmente conveniente per il cliente (rectius: paziente, nel caso di specie) in quanto a parità di compenso risparmia l’aliquota i.v.a. che un professionista non aderente al regime dei minimi dovrebbe applicare. Per contro, il lavoratore autonomo aderente al regime dei contribuenti minimi non ha alcuna possibilità di portare in detrazione l’i.v.a. assolta sugli acquisti o sulle prestazioni professionali ricevute (e inerenti alla sua attività). Per esempio: qualora un fisioterapista acquisti un macchinario per la tecar terapia, non potrebbe portare in detrazione l’imposta sul valore aggiunto pagata al proprio cedente (il venditore). La ragione di questo meccanismo è facilmente intuibile: se si consentisse di portare in detrazione questa i.v.a., il fisioterapista (come ogni altro contribuente minimo) avrebbe costantemente un credito di imposta nei confronti dell’Erario. Ad ogni modo, sui meccanismi di rivalsa e detrazione si rimanda al prosieguo del presente contributo.
[9] Secondo la Circolare dell’Agenzia delle Entrate del 22 dicembre 2011, il compenso da chiunque erogato in favore del contribuente minimo non è soggetto a ritenuta d’acconto.
[10] Si rammenta che il reddito da lavoro autonomo è determinato, ai sensi dell’art. 54, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (t.u.i.r.), sulla base della differenza tra i compensi percepiti e le spese sostenute nell’esercizio dell’attività professionale, ovviamente, al netto dell’i.v.a.. Esemplificando: un fisioterapista aderente al regime dei contribuenti minimi, nel 2012, ha emesso 100 fatture di importo pari ad € 200,00 ciascuna. Nello stesso anno, tale soggetto, ha effettuato acquisti di beni strumentali all’attività di lavoro autonomo (lettini, macchinari, camici, attrezzature per la palestra, ecc.) per un importo pari ad € 5.000,00 (i.v.a.inclusa). Ebbene, al momento della determinazione del reddito, il contribuente dovrà calcolare l’ammontare dei ricavi (nell’esempio, € 20.000,00) e sottrarre l’ammontare dei costi sostenuti al netto dell’i.v.a. (nell’esempio, fingendo che tutti i beni acquistati soggiacessero all’aliquota ordinaria del 21%, € 3.950,00). Il reddito netto, pertanto, sarà pari ad € 16.050,00, al quale si dovrà applicare l’aliquota del 5% per ottenere l’imposta dovuta.
[11] Va precisato, però, che qualora il contribuente minimo produca anche redditi differenti da quello di lavoro autonomo e, quindi, sia comunque tenuto a presentare la dichiarazione dei redditi, in quel caso, ovviamente, potrà usufruire delle eventuali detrazioni di imposta maturate (per spese sanitarie, spese di istruzione, spese per familiari a carico, ecc.).
[12] Ovviamente, qualora abbia i requisiti per aderire a tale regime.
[13] In particolare, dovranno essere rispettati tutti gli obblighi formali previsti dal d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. Per quanto concerne le questioni relative alla fatturazione, peraltro, sono state introdotte rilevanti novità e modifiche dalla legge di stabilità per il 2013 (l. 24 dicembre 2012, n. 228). Sull’argomento si veda G. Zambon, Fatturazione: le nuove regole previste dalla Legge di Stabilità 2013. articolo del 14 gennaio 2013, www.altalex.it, segnatamente al seguente link. http://www.altalex.com/index.php?idstr=73&idnot=61064.
[14] Art. 5, c. 1, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.
[15] Ciò in quanto il D.M. 17 maggio 2002 del Ministero della Salute non prevede più tale requisito.
[16] Si ritiene opportuno precisare che l’esenzione in parola è prevista solamente per le prestazioni di servizi e non per le cessioni di beni. È vero che per la tipologia di attività esercitata, il fisioterapista non dovrebbe incorrere nella problematica del coordinamento tra cessione di beni (imponibile) e prestazione sanitaria riabilitativa (esente), ma ciò non può certo essere escluso a priori. Ad ogni modo, si ritiene che qualora la cessione del bene sia strettamente inerente alla prestazione resa, potrebbe perdere la sua natura di cessione e rientrare all’interno del generale contratto d’opera stipulato tra paziente e professionista e, pertanto, diventare una questione accessoria e marginale rispetto alla prestazione sanitaria con la conseguenza che sarebbe esente dall’i.v.a.. In termini similari si esprime, ancorché in riferimento alle professioni di odontotecnico, odontoiatra, ottico, meccanico ortopedico, ecc., S. Digregorio Natoli, Trattamento iva delle prestazioni sanitarie, Fisco, 2000, 47, p. 14024, il quale osserva acutamente che «che tutte le operazioni poste in essere dagli odontotecnici, così pure dagli odontoiatri, non possono non essere considerate prestazioni di servizi conformemente regolate ai fini fiscali, sia che le stesse vengano effettuate nei confronti di privati che di altri odontotecnici e/o odontoiatri; ciò in quanto la natura e la specificità di tali prestazioni non consente e non permette la preparazione di protesi per il magazzino-laboratorio da destinare alla rivendita ma impone l’approntamento di protesi ad hoc per qualità e misura che si adattino alle condizioni naturali nonché economiche del cliente».
[17] Ciò è previsto dall’art. 19, c. 2, d.P.R. 633/1972, a mente del quale «non è detraibile l’imposta relativa all’acquisto o all’importazione di beni e servizi afferenti operazioni esenti».
[18] In termini analoghi si esprime S. Digregorio Natoli, Trattamento iva delle prestazioni sanitarie, cit., per il quale le esenzioni ai fini i.v.a. rappresentano un danno per la regolare applicazione del tributo.
[19] Ovviamente, trattandosi di diritto amministrativo, non è questa la sede dove affrontare il tema delle modalità di selezione della persona alla quale affidare l’incarico. Ad ogni modo, per un approfondimento sulle procedure per la stipula di contratti pubblici si veda I. Franco, Manuale del nuovo diritto amministrativo, Cedam, 2012, p. 797 e ss. e la bibliografia ivi citata.
[20] In questa sede si fa riferimento solamente a strutture organizzate in forma di impresa societaria. Le associazioni professionali, invece, non dovrebbero presentare queste problematiche perché, tendenzialmente, ogni associato fattura autonomamente nei confronti del paziente per le prestazioni rese.
[21] Cfr. Sentenze della Corte di Giustizia Europea del 10 settembre 2002, causa C-141/00 e 6 novembre 2003, causa C-45/01. Tutta la giurisprudenza comunitaria è liberamente consultabile sul sito http://curia.europa.eu/jcms/jcms/j_6/.
[22] Cass. Civ. Sez. V, Sent., 22 ottobre 2010, n. 21703, in banca dati IPSOA. La pronuncia, peraltro, è conforme a quanto già statuito nella Sentenza Cass. civ. Sez. V, Sent., 28 settembre 2005, n. 19007.
[23] L’interpello è disciplinato dall’art. 11, l. 27 luglio 2000, n. 212.